domenica 29 aprile 2012

Nei tempi

 

NEI TEMPI


La scrittura è il risultato di un processo progressivo, durato migliaia di anni ed avvenuto in modo indipendente nelle diverse parti del mondo.
Inizialmente per indicare oggetti, persone, animali o piante veniva usata la loro figura o un segno convenzionale, successivamente si è ricorsi ad una scrittura fonetica, basata sul meccanismo dei rebus, quindi ad una scrittura sillabica ed infine alla scrittura alfabetica.
I testi più antichi conosciuti risalgono alla fine del IV millennio a.C. e sono quasi tutti scritti in sumerico, scrittura fondamentalmente figurativa, a base di pittogrammi, creata dai Sumeri, primi abitanti dell'antica Mesopotamia. Questi testi, incisi su tavolette di argilla, sono stati rinvenuti nella città di Uruk. Si tratta di registrazioni di attività all'interno dei centri urbani (atti di matrimonio, cessioni di proprietà, espulsioni di funzionari), che, consentendoci di seguirne la trasformazione nel tempo, danno origine alla storia.

Tavoletta di argilla rinvenuta ad Uruk, 3100-2900 a.C.


Dall'evoluzione di questa fase di scrittura deriva la scrittura cuneiforme, costituita di pittogrammi, fonogrammi e segni numerici. La rappresentazione pittografica dei segni assume nel tempo un aspetto stilizzato; le linee, originariamente continue, vengono segmentate in una serie di tratti o cunei, diventando sempre più dissimili dalle forme originarie.
Il termine cuneiforme ha una motivazione tecnica: gli stili di canna con cui si scrive sulle tavolette in argilla sono a sezione triangolare allungata, a forma di cuneo. La scrittura cuneiforme si diffonde in Medio Oriente e viene usata dai Sumeri, dagli Accadi, dai Babilonesi e dagli Assiri, popolazioni di ceppo semitico, ma anche dagli Ittiti, di provenienza indoeuropea. Questo tipo di scrittura durerà millenni e verrà sostituito dalla scrittura alfabetica.
  
Testi di Fara, scrittura cuneiforme su argilla, 2600-2500 a.C


La scrittura geroglifica nasce nello stesso periodo di quella cuneiforme. Gli Egizi non scrivono su argilla, ma su papiro, legno e pareti di roccia levigata e, a differenza dei Sumeri, non ricorrono alla scrittura esclusivamente per i documenti contabili, bensì per un utilizzo molto più ampio. Anche la scrittura degli Egizi è mista, composta di fonogrammi, pittogrammi e determinativi. I fonogrammi di una sola lettera possono già considerarsi lettere dell'alfabeto, eppure gli Egizi li impiegano unicamente insieme ad altri caratteri.
Il termine geroglifico deriva dal greco e significa scrittura sacra, essendo considerata dagli Egizi un fenomeno divino.
Mentre l'uso della scrittura geroglifica è essenzialmente monumentale, con la semplificazione dei glifi nella scrittura ieratica e successivamente nella scrittura demotica sarà possibile realizzare ogni tipo di testo. La scrittura geroglifica si sviluppa dal 3400 a.C. fino al 396 d.C.; viene decifrata dal francese J. F. Champollion nel XIX secolo in seguito alla scoperta della Stele di Rosetta, incisa in geroglifico, demotico ed in greco.

Esempio di scrittura geroglifica egizia su papiro, 1285 a.C., Londra, British Museum


L'invenzione dell'alfabeto è attribuita ai Fenici; in realtà le prime testimonianze di scrittura alfabetica, risalenti al XIX secolo a.C., sono le iscrizioni di Wadi-el-Hol, ritrovate su una parete rocciosa in Egitto, lungo un'antica strada militare tra Tebe e Abydos. Si tratta di una scrittura molto semplice, impiegata da uomini di bassa provenienza sociale, per tracciare brevi iscrizioni, che, in seguito, diffondendosi presso i Fenici, viene perfezionata ed usata per il commercio.

La stele di Nora, con antiche iscrizioni in alfabeto fenicio


L'alfabeto fenicio dà origine alla scrittura greca, etrusca e latina. I Greci lo utilizzano dal IX secolo a.C., arricchendolo di segni per rappresentare le vocali. L'alfabeto greco, nato dopo il crollo della civiltà micenea e del sistema di scrittura lineare B, ha un'ampia diffusione nel mondo ellenistico; oggi, tuttavia, è limitato alla Grecia, pur sopravvivendo in parte nell'alfabeto cirillico. Le 24 lettere che conosciamo risalgono all'alfabeto ionico,  ufficialmente assunto da Atene nel 403 a.C. con l'editto di Archino.

Alfabeto greco arcaico su ceramica, Atene, Museo Archeologico Nazionale
  

Verso la fine dell'VIII secolo a.C. gli Etruschi vengono in contatto con i Greci nelle colonie, adottandone l'alfabeto. Anche i Romani, attraverso i continui rapporti con Greci ed Etruschi, ne assimilano l'alfabeto (VIII secolo a.C.), modificandolo ed esportandolo quindi in tutti i paesi dell'Impero, in continua espansione.

Iscrizione latina nel Colosseo, I secolo d.C.


Con le invasioni barbariche (166-476 d.C.) i monasteri diventano templi della scrittura ed i monaci i soli suoi depositari per secoli. La rinascita culturale all'epoca di Carlo Magno (VIII-IX secolo) promuove l'ampliamento delle biblioteche e degli scriptoria dei monasteri. Nel monastero di Corbie viene creato un nuovo stile di scrittura denominato scrittura carolina, che faciliterà il compito di trascrizione degli amanuensi.
La Riforma protestante, stimolando lo studio della Bibbia anche tra la popolazione, incrementa la conoscenza delle lettere e della scrittura, eppure il maggior contributo alla loro diffusione è dovuto all'adozione della stampa e all'impiego dei caratteri mobili di Johann Gutenberg nel XV secolo (l'invenzione della stampa è cinese e risale al VII secolo).
Il processo di stampa, nel tempo, diventa sempre più veloce: a metà '800 con le rotative, a fine '800 con l'invenzione del linotype e alla fine del XX secolo con la fotocomposizione e con l'editoria elettronica.

Il Sutra del Diamante in cinese, 868 d.C., Londra, British Library

 



L'avventura interminabile della scrittura continua nel nostro tempo con l'invenzione del computer, che soppianta quasi del tutto la macchina per scrivere (XIX secolo). Negli ultimi decenni i computer si sono affermati in tutto il mondo. Sconvolgendo abitudini secolari, sono entrati nelle nostre case permettendoci, attraverso la scrittura elettronica, di inserire o cancellare parole e frasi con un click e di redigere elaborati finiti, privi di correzioni. La scrittura per il web, invece, ci consente di mettere in relazione tra di loro vari documenti attraverso parole chiave, che, funzionando come collegamenti ipertestuali, ci autorizzano l'accesso ad informazioni aggiuntive (ipertesto).
  
 




domenica 15 aprile 2012

Narrazioni: fumetti

Fumetti















Narrazioni: letteratura


Letteratura



Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto veder per aria, doveva supporre tutt'altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d'aver le loro; ma c'eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de' suoi interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que' tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s'avesse nessuna antica conoscenza. L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a trovarsi in un uomo solo. Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche l'incarico di far recapitare il plico.

[…]

Ma per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato. Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa.






I peggiori anni furono i primi, quando la Compagnia Fluviale lo nominò scrivano della Direzione Generale, che sembrava un lavoro inventato su misura per lui. Fu Lotario Thugut, vecchio maestro di musica dello zio León XII, a consigliargli di dare al nipote un impiego in cui dovesse scrivere, perché era un consumatore instancabile di letteratura all’ingrosso, anche se non tanto di quella buona quanto della peggiore. Lo zio León XII non fece caso alla precisazione sulla cattiva qualità delle letture del nipote, perché anche di lui Lotario Thugut diceva che era stato il suo peggior allievo di canto e però faceva piangere persino le lapidi dei cimiteri. Comunque, il tedesco ebbe ragione in quello cui meno aveva pensato, ed era che Florentino Ariza scriveva qualsiasi cosa con tanta passione che perfino i documenti ufficiali sembravano d’amore. I manifesti d’imbarco gli uscivano rimati, per quanto si sforzasse di evitarlo, e le lettere commerciali avevano un afflato lirico che toglieva loro autorità. Lo zio in persona gli comparve davanti un giorno in ufficio con un pacchetto di corrispondenza che non aveva avuto il coraggio di firmare come sua.
«Se non sei capace di scrivere una lettera commerciale, andrai a raccogliere la spazzatura del molo» gli disse.
Florentino Ariza accettò la sfida. Fece uno sforzo supremo per imparare la semplicità terrena della prosa commerciale, imitando modelli di archivi notarili con tanta applicazione come prima faceva con i poeti di moda. Quella era l’epoca in cui passava le sue ore libere al Portico degli Scrivani ad aiutare gli innamorati implumi a scrivere i loro biglietti profumati, per scaricare il cuore di tante parole d’amore che gli restavano inutilizzate nei manoscritti doganali. Ma dopo sei mesi, per quanto si fosse dato da fare, non era riuscito a torcere il collo al suo cigno indurito. Così, quando lo zio León XII lo riprese per la seconda volta, lui si diede per vinto, ma con una certa alterigia.
«L’unica cosa che mi interessa è l’amore»disse.
«La cosa brutta» gli disse lo zio «è che senza navigazione fluviale non c’è amore».
[…]
Il dramma di Florentino Ariza finché fu calligrafo della Compagnia Fluviale del Caribe era di non poter evitare il lirismo, perché non la smetteva di pensare a Fermina Daza e non imparò mai a scrivere senza pensare a lei. Poi, quando lo passarono ad altri incarichi, gli avanzava tanto amore dentro che non sapeva cosa farne, e lo regalava agli innamorati implumi scrivendo per loro lettere d’amore gratuite al Portico degli Scrivani. Ci andava dopo il lavoro. Si toglieva la finanziera con i suoi gesti parsimoniosi e l’attaccava allo schienale della sedia, si metteva le mezze maniche per non sporcare quelle della camicia, si sbottonava il gilè per pensare meglio, e a volte fino a molto tardi di notte rianimava i derelitti con delle lettere da matto. Una volta ogni tanto incontrava una povera donna che aveva un problema con un figlio, un veterano di guerra che insisteva a reclamare il pagamento della sua pensione, qualcuno cui avevano rubato qualcosa e voleva lamentarsi davanti al governo, ma per quanto si sforzasse non poteva accontentarli, perché l’unica cosa con cui riusciva a convincere qualcuno era con lettere d’amore. Neanche faceva domande ai clienti nuovi, perché gli bastava guardarli nel bianco degli occhi per farsi carico del loro stato, e scriveva fogli su fogli di amori calpestati, usando la formula infallibile di scrivere pensando sempre a Fermina Daza e a nient’altro che a lei.
Il suo ricordo più gradito di quell’epoca fu quello di una ragazzetta molto timida, quasi una bambina, che gli chiese tremante di scriverle una risposta a una lettera irresistibile che aveva appena ricevuto e che Florentino Ariza riconobbe come scritta da lui il pomeriggio precedente. Rispose con uno stile diverso, concorde con l’emozione e l’età della bambina, e con una calligrafia che sembrava anch’essa di lei, perché sapeva fingere una scrittura per ogni occasione secondo il carattere di ognuno. La scrisse immaginandosi quello che Fermina Daza gli avrebbe risposto se lo avesse amato tanto quanto quella creatura sprovveduta amava il suo pretendente. Due giorni dopo, senza ritardi, dovette scrivere anche la risposta dell’innamorato con la calligrafia, lo stile e il tipo di amore che gli aveva attribuito nella prima lettera, e fu così che finì per trovarsi coinvolto in una corrispondenza febbrile con se stesso. Prima di un mese, tutti e due andarono separatamente a ringraziarlo per quello che lui stesso aveva proposto nella lettera dell’innamorato e accettato con devozione nella risposta della ragazza: si sarebbero sposati.
Solo quando ebbero il primo figlio si resero conto da una conversazione casuale che le lettere di tutti e due erano state scritte dallo stesso scrivano, e per la prima volta andarono insieme al Portico per nominarlo padrino del bambino. Florentino Ariza si entusiasmò tanto per l’evidenza pratica dei suoi sogni che trovò il tempo per scrivere un Segretario degli innamorati più poetico e ampio di quello che fino a quel tempo si vendeva per venti centesimi sulle porte e che mezza città conosceva a memoria. Catalogò le situazioni immaginabili in cui avrebbero potuto trovarsi Fermina Daza e lui, e per ognuna di esse scrisse tanti modelli quante alternative di andata e ritorno gli parvero possibili. Alla fine ebbe un migliaio di lettere in tre tomi tanto completi quanto il dizionario di Covarrubias, ma nessuno stampatore della città si arrischiò a pubblicarli e finirono in qualche abbaino della casa, con altre carte del passato, perché Tránsito Ariza si rifiutò di dissotterrare le anfore per svendere i risparmi di tutta la sua vita in una follia editoriale. Anni dopo, quando Florentino Ariza ebbe mezzi propri per pubblicare il libro, gli costò fatica ammettere la realtà che ormai le lettere d’amore erano passate di moda.

Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, trad. di C. M. Valentinetti, Mondadori





C'è stato un tempo, quando ero bambino, forse perché ero cresciuto in mezzo a libri e librai, in cui volevo diventare uno scrittore e vivere come il protagonista di un melodramma. Queste fantasie infantili erano ispirate da uno straordinario manufatto esposto in un negozio di calle Anselmo Clavé, proprio dietro al palazzo del Governo Militare. L'oggetto della mia adorazione, una magnifica stilografica nera decorata da un tripudio di fregi, splendeva al centro della vetrina come un gioiello della corona. Il pennino, un delirio barocco in oro e argento finemente incisi che brillava come il faro di Alessandria, era un prodigio in sé. Quando uscivo a passeggio con mio padre non avevo pace finché non mi portava a vedere la penna, appartenuta, a suo dire, nientemeno che a un imperatore. Io ero sicuro che con una tale meraviglia si potesse scrivere qualsiasi cosa, da un romanzo a un'enciclopedia, e anche lettere che non avrebbero avuto bisogno del servizio postale. Ero convinto che qualunque messaggio scritto con quella penna sarebbe arrivato a destinazione, anche nel luogo misterioso dove, secondo mio padre, si trovava la mamma.
Un giorno decidemmo di entrare nel negozio e scoprimmo che si trattava della regina delle stilografiche, una Montblanc Meinsterstück a serie limitata, appartenuta, così asseriva il negoziante, nientemeno che a Victor Hugo. Da quel pennino d'oro, ci informò, era scaturito il manoscritto de I miserabili.
«Proprio come la Vichy catalana sgorga dalla sorgente di Caldas» aggiunse.
Ci disse di averla acquistata da un collezionista venuto da Parigi, dopo essersi accertato che fosse autentica.
«E quale sarebbe, di grazia, il prezzo di questa fonte miracolosa?» chiese mio padre.
Udendo la cifra impallidì, ma ormai io mi ero perdutamente innamorato. Il negoziante, forse pensando di avere di fronte due scienziati, snocciolò una serie di dati incomprensibili sulle leghe di metalli preziosi e le lacche dell'Estremo Oriente e poi passò a esporci una teoria rivoluzionaria su emboli e vasi comunicanti, tutti elementi dell'inarrivabile arte teutonica che consentiva a quel miracolo della tecnologia di imporre la sua supremazia grafica. Va detto però che il negoziante, benché mio padre e io avessimo un aspetto da poveracci, caricò di inchiostro la penna perché potessi tracciare il mio nome su una pergamena e inaugurare una carriera letteraria non meno brillante di quella di Victor Hugo. Quindi, dopo averla lucidata con un panno, l'uomo adagiò la regina delle stilografiche sul suo trono d'onore.
«Magari un altro giorno» mormorò mio padre.
Usciti dal negozio, mi disse che non potevamo permettercela. Le entrate della libreria erano appena sufficienti per tirare avanti e pagare la retta della mia scuola. La stilografica Montblanc del venerabile Victor Hugo era destinata ad attendere. Non dissi nulla, ma il mio volto dovette tradire una profonda delusione.
«Faremo così» propose mio padre. «Quando inizierai a scrivere, torneremo qui e la compreremo.»
«E se nel frattempo la vendono?»
«Nessuno la comprerà, stai tranquillo. Ma se dovesse succedere, chiederemo a don Federico di farcene una uguale. Sai che quell'uomo ha le mani d'oro, no?»






sabato 14 aprile 2012

Narrazioni: fiabe

 

NARRAZIONI


Fiabe



Shams an-Nahar al principe di Persia Ali ibn Bakkar!

La persona che vi darà questa lettera vi dirà di me, meglio di quanto io possa fare, poiché io non mi conosco dacché non vi vedo. Priva della vostra presenza, cerco di ingannarmi, scrivendovi queste poche righe, con lo stesso piacere che se avessi la felicità di parlarvi.
Si dice che la pazienza è un rimedio a tutti i mali, e invece essa esaspera i miei e non li calma. Quantunque il vostro ritratto sia profondamente scolpito nel mio cuore, i miei occhi desiderano incessantemente rivedere l'originale, e perderebbero tutta la luce se per necessità ne restassero più lungamente privi. Posso sperare che i vostri occhi abbiano la stessa impazienza di vedermi? Sì, lo posso, me l'hanno fatto comprendere coi loro teneri sguardi.

Quanto a voi, o principe, sarei felice, se i miei desideri, così uguali ai vostri, non fossero contrariati da ostacoli insuperabili. Simili ostacoli mi affliggono tanto più vivamente in quanto affliggono anche voi.

Questi sentimenti che la mia mano traccia, e che esprimo con un piacere incredibile, ripetendoli più volte, vengono dal più profondo del mio cuore e dalla ferita incurabile che mi avete inferta, ferita che io benedico mille volte, ad onta della mia sofferenza per la vostra lontananza. Non mi curerei di ciò che si oppone ai nostri amori se mi fosse concesso qualche volta di vedervi liberamente. Allora vi possederei, e chi potrebbe essere più felice di me?

Non supponete che queste mie parole dicano più di quanto penso. Ohimè! Qualunque espressione abbia potuto scrivere, sento che è inferiore a quanto penso. I miei occhi, che sono in continua veglia, versano incessantemente lacrime, aspettando il momento di rivedervi; il mio cuore afflitto non desidera che voi; mi sfuggono sospiri ogni volta che penso a voi, cioè ogni momento; la mia immaginazione non mi rappresenta altri oggetti se non il mio caro principe. I lamenti che innalzo al cielo per la durezza del mio destino e la mia tristezza, le mie inquietudini, i miei tormenti, che non mi danno nessuna tregua dacché non vi vedo, vi mostrino la verità di quanto vi scrivo.
                                                          
[...]

Ibn Tahir la prese e lesse quel che segue:
Il principe di Persia alla bella Shams an-Nahàr!

Io ero immerso in un'afflizione mortale quando ho ricevuta la vostra lettera. Al solo vederla sono stato invaso da una gioia ineffabile: ed alla vista dei caratteri tracciati dalla vostra bella mano, i miei occhi hanno ricevuto una luce più viva di quella che avevano i vostri, allorché si chiusero ad un tratto ai piedi del mio rivale.

Le parole che contiene la vostra bella lettera sono altrettanti raggi luminosi, che hanno dissipato le tenebre che mi oscurano lo spirito. Esse mi fanno sapere quanto soffrite per me, non ignorando quanto io soffro per voi: e perciò sono di balsamo ai miei mali. Da una parte mi fanno versare abbondanti lacrime, dall'altra infiammano il mio cuore d'un fuoco che lo sostiene e m'impedisce di morire di dolore.

Io non ho avuto un momento di riposo dopo la nostra crudele separazione. Solo la vostra lettera reca qualche sollievo ai miei mali. Sono stato mesto e silenzioso, finché non l'ho ricevuta; essa mi ha ridonato la parola. Ero immerso in una profonda malinconia: essa mi ha ispirato una gioia immensa.

La mia sorpresa, nel ricevere un favore che non merito, è stata così grande che non sapevo da dove cominciare per dimostrarvene la mia riconoscenza.

Finalmente, dopo averla baciata più volte, come una prova preziosa della vostra bontà, l'ho letta e riletta, restando confuso della mia felicità. Voi volete che io vi ripeta che vi amo ancora? Ah! Anche se non vi amassi immensamente come vi amo, non potrei non adorarvi dopo tutte le straordinarie prove d'amore che mi avete date.

Sì, anima mia, io vi amo, e sono fiero di bruciare per tutta la vita al dolce incendio che avete acceso nel mio cuore. Non mi lamenterò mai del vivo ardore che mi consuma, e per quanto siano crudeli i mali cagionati dalla vostra lontananza, io li sopporterò fieramente con la speranza di vedervi un giorno. Piacesse al cielo che ciò potesse avvenire in questo stesso momento, e che invece di mandarvi la mia lettera mi fosse permesso di venire ad assicurarvi che muoio d'amore per voi! Le lacrime mi impediscono di dirvi altro. Addio.


giovedì 12 aprile 2012

Miti


MITI


Il mito della scrittura presso i Sumeri


I Sumeri attribuirono l'invenzione della scrittura ad un loro eroe leggendario: Enmenkar. Un celebre mito narra le traversie di questo mitico sovrano di Uruk, antenato dello stesso Gilgamesh, che invia a Ensukeshdanna, re di Aratta, un messaggero. Questi dovendo riferire, viaggiando da una corte all'altra, messaggi sempre più lunghi, non riesce a ricordare tutte le parole. A questo punto Enmenkar prende dell'argilla, l'appiattisce come una tavoletta e vi scrive sopra, dando inizio alla scrittura.


Tavoletta di argilla con scrittura cuneiforme

 

 

L'origine della scrittura nel Fedro di Platone: il mito di Teuth


Platone nel Fedro fa raccontare a Socrate il mito che spiega l'invenzione della scrittura. Il dio Teuth, divinità egizia, si reca presso re Thamus, sovrano di Egitto, per sottoporgli le sue invenzioni, tra le quali figurano le lettere dell'alfabeto e l'arte della scrittura. Secondo Teuth, grazie alla scrittura, gli Egizi potrebbero diventare più sapienti e la loro memoria si rafforzerebbe. Re Thamus frena l'entusiasmo di Teuth, sostenendo che la scoperta della scrittura non sarebbe un rafforzamento ma un impoverimento della memoria degli uomini perché li abituerebbe a ricordare i concetti soltanto attraverso segni esterni; la scrittura, inoltre, non aumenterebbe la conoscenza ma l'arroganza del sapere, impedendo di arrivare alla verità.

Teuth, divinità egizia



I primi inventori della scrittura nelle Fabulae di Igino (Igino,Fabulae, 277)


[...]Le Parche, Cloto, Lachesi e Atropo, inventarono sette lettere dell’alfabeto greco: A B H T Y ...... altri dicono che le inventò Mercurio dal volo delle gru, che quando volano disegnano in cielo delle lettere. Anche Palamede, figlio di Nauplio, inventò undici lettere ......, Simonide altre quattro, W E Z F, il siciliano Epicarmo due, P e Y. Dicono che Mercurio abbia portato per primo le lettere greche in Egitto e che dall’Egitto Cadmo le abbia portate in Grecia; poi Evandro, esule dall’Arcadia, le portò con sé in Italia, dove sua madre Carmenta le trasformò in latine, quindici di numero. Apollo aggiunse le altre con la sua lira. [...]


Le Parche: Cloto, Lachesi e Atropo